James Thierrée

1974, Losanna - Svizzera

Debutta a teatro a soli quattro anni con Le Cirque Bonjour, per poi gitrare il mondo con la compagnia Le Cirque Imaginaire. Nel 1998 fonda La Compagnie du Hanneton con cui crea il suo primo lavoro, The Junebug Symphony, premiato con 4 Molière Awards e programmato in tutto il mondo. Nei suoi spettacoli ama descrivere l’essere umano attraverso sogni e incubi, avventure romantiche e talvolta grottesche. Lavora a teatro anche con Carlos Santos, Beno Besson, Robert Wilson, Peter Greenaway e al cinema é stato diretto da Coline Serreau, Aniezka Holland, Philippe de Broca, Roland Joffe, Jacques Baratier, Jean-Pierre Limosin, Robinson Savary, Antoine De Caunes, Laurent De Bartillat, Tony Gatlif, Claude Miller, Roschdy Zem (Premio Cesar 2017 per l’interpretazione di Footit nel film Chocolat), Jean François Richet.

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teatro, circo

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Romaeuropa Festival

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Raoul

L’intervista è stata commissionata dalla Fondazione Romaeuropa per i programmi di sala del festival.

Con i tuoi spettacoli hai segnato profondamente l’evoluzione del così detto “nuovo circo” a partire dagli anni Novanta affermandoti come uno dei punti di riferimento non solo per questa disciplina, ma per le arti performative in generale. Il circo d’altronde fa parte della tua vita fin dall’infanzia. Cosa ha rappresentato e cosa rappresenta oggi per te?

Il circo è legato alla mia infanzia, all’avventura dei miei genitori e al “me bambino” sempre al loro seguito. È un magma che risale dalle viscere di un vulcano, la sorgente del mondo sotto la calotta terreste, qualcosa di estremamente presente nei miei ricordi e nel mio corpo. Un ricordo legato all’Italia, attraversata da capo a piedi per grandi tournée quando ero piccolo, così tanto da aver imparato anche la vostra lingua. Non lo dico perché presentiamo Raoul a Roma, ma perché si tratta veramente di una terra che associo al circo e alla mia infanzia. Dentro di me e nel mio corpo questi ricordi sono impressi come delle cartoline postali. Oggi il circo è invece molto lontano dalla mia pratica. I miei spettacoli si situano principalmente nel terreno del teatro molto più che in quello de circo. Possiamo fare riferimento semplicemente allo spazio: non più i tendoni del circo ma la scena teatrale. Questo passaggio alla materia teatrale (sebbene ancora oggi io non lavori sul testo o sulla parola recitata) è avvenuto attraverso un percorso di trasformazione dell’arte circense in danza, teatro e arti visive. Così ciò che resta del circo nei miei spettacoli è soprattutto un gusto popolare del fare teatro: la voglia di creare per il pubblico, per il piacere condiviso degli spettatori. Così, anche se oggi esploro strade molto lontane dalla spettacolarità dei numeri circensi, del circo rimane questa tensione ad un rapporto diretto e schietto con il pubblico.

Nel tuo teatro e in Raoul il corpo umano sfida i suoi limiti attraverso l’acrobazia, ma contemporaneamente la scena è abitata da sculture animate (forse animali) con cui il corpo si relazione. Che posto ha l’umano in questa dimensione scenica?

textFoto Richard Haughton

L’essere umano è centrale. In Raoul il protagonista è un personaggio che sta solo davanti al suo pubblico. Aldilà delle sculture animate e della scena, che hanno un ruolo importante nello spettacolo, il ruolo preponderante è affidato proprio alla forza di Raoul, alla sua umanità. Ciò che gli spettatori testimoniano perlopiù è un sentimento di empatia verso il personaggio, in cui riescono a proiettarsi e riconoscersi. Credo che la forza di Raoul derivi proprio dalla sua solitudine: è una figura solitaria che affronta i propri ostacoli e li combatte con forza fino a rendersi conto di essere essa stessa l’ostacolo principale. E questa semplicità è in grado di rendere la sua condizione universale. Negli anni ho compreso la forza che si crea quando si cerca l’umano nell’extra-umano, nello spettacolare, in quelle forme che mettono in luce la straordinarietà dell’essere umano stesso.

Questa solitudine che anima la figura su scena protagonista dello spettacolo nasce per uno scopo? Quale è il più grande desiderio e la più grande paura di questo personaggio?

La solitudine porta con sé la noia e quindi la possibilità di battersi contro la noia creando grandi cose. Raoul si è chiuso per propria volontà in una torre, vuole sottrarsi dal mondo. Quello che ottiene è l’effetto inverso. La forza che applica per raggiungere questo scopo, infatti, lo riporta automaticamente nel mondo. Questa schizofrenia anima lo spettacolo: Raoul crea e distrugge la torre in cui ha deciso di vivere, la solitudine è contemporaneamente il suo più grande desiderio e la sua più grande paura, così come desiderio e paura si affrontano nella volontà di distruggere la torre in cui si è rinchiuso. Desiderio e paura coincidono in questo spettacolo come spesso accade nella vita. Raoul è come un iceberg: ha una parte emersa e un’altra sommersa. Il suo obiettivo finale è quello di riuscire a vivere lasciando che entrambe queste dimensioni di sé trovino il modo di esprimersi.

Raoul ha attraversato i teatri del mondo intero dal 2009 ed è uno spettacolo a cui sembri molto affezionato. Oltretutto il “bestiario” ovvero l’insieme di sculture animate che popolano la scena, è stato creato da tua madre. Credi che Raoul ci racconti qualcosa anche di James artista e uomo?

textFoto Richard Haughton

Sono molto interessato a come uno spettacolo possa riflettersi sulle persone che sono sedute difronte a me e che mi guardano agire in scena. Ma non ho mai desiderato mettermi a nudo difronte al pubblico. Non credo di essere abbastanza appassionante per diventare il soggetto dei miei spettacoli. Da quando gli uomini non muoiono più davanti agli occhi del pubblico per lo spettacolo, come avveniva in epoca romana, è ciò che si trova all’interno dell’artista – e quindi dentro di me – che viene offerto sulla scena. La posta in gioco è qualcosa di fragile e prezioso, qualcosa che dono a chi mi guarda. E mi piace questa idea di donare, di donarmi totalmente in modo semplice. È sempre uno scambio tra me e gli spettatori, che dura il tempo dello spettacolo.

Anche il cinema appartiene al tuo percorso artistico. Sei stato diretto da grandi registi: Peter Greenaway, Bob Wilson, Coline Serreau, Raul Ruiz e Benno Besson e hai realizzato anche documentari. Che posto occupa questa disciplina nella tua pratica artistica? E c’è per te un legame tra teatro e cinema?

Mi sento al centro di questi due linguaggi. In questo momento tra l’altro sto lavorando ad un nuovo film. Si tratta per me di due “teatri”: quello dello schermo cinematografico e quello della scena. Due dimensioni che si alternano nella mia vita come in un ping-pong che dura da tempo. Nonostante si tratti di due mondi talvolta distinti e lontani, amo molto riunirli: da un lato la verità del cinema, quella che ho appreso mettendomi al servizio di altri registi (ad esempio interpretando “un uomo seduto a tavola che parla con la propria moglie” o “che attraversa la strada per andare a fare qualcosa di quotidiano”), dall’altro il mondo fantasmagorico del teatro fisico e sfrenato che occupa un posto preponderante nella mia pratica artistica. La mia vita è nel teatro ma il cinema mi è altrettanto vicino, in questo dialogo due estremi si congiungono: da un lato il corpo e la metafora, dall’altro la realtà umana incarnata da una recitazione non sublimata.

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